Recenti fatti di cronaca hanno innescato un rigurgito di violenza verbale a mezzo social, indirizzata in particolare ad alcune giornaliste e influencers da parte di utenti che privi di ogni freno inibitore si sono lasciati andare a commenti che nulla avevano a che vedere con delle opinioni. Non è un caso, a parer mio, che queste siano in particolare donne e che una gran parte dei commenti provenga da profili maschili che utilizzano, nella maggior parte dei casi, un linguaggio triviale e sessista che svilisce la persona prima ancora delle idee che porta. Esprimere opinioni è un conto, aggredire verbalmente in maniera veemente e acritica non può essere considerata libertà di pensiero, ma pura e semplice violenza.
Questa brutalità che attraversa quotidianamente le principali piattaforme dei social network Facebook, Instagram e X (ex Twitter) non è un problema recente. Nell’ultimo decennio la comunicazione mediatica all’interno di questi contenitori è vieppiù peggiorata anche a causa dell’uso propagandistico che ne fa la politica e della possibilità di chiunque di poter commentare in modo disumano e restare impunito. La distanza tra gli interlocutori infatti è la prima causa dell’esplosione di attacchi verbali violenti. Lo schermo e la tastiera danno una sensazione di protezione dalle conseguenze che può avere un commento razzista, sessista o generalmente maleducato; alcuni fatti ci raccontano come una volta che la persona violenta venga messa a confronto diretto con colui o colei a cui ha indirizzato il commento feroce, questa non sia stata in grado di ripetere quanto avesse scritto.
Un altro motivo è legato agli algoritmi delle piattaforme che evidenziano i commenti negativi più di quelli positivi così da avere maggiori interazioni e far circolare in maniera massiccia i post; quindi, quando scorriamo le notizie sullo schermo, è più probabile che ci venga proposta l’anteprima di un commento sgradevole che non uno privo di aggressività.
Per arginare questa feroce deriva, nel 2017 l‘associazione Parole O_Stili di Trieste ha pubblicato il Manifesto della comunicazione non ostile, un decalogo di buone pratiche da utilizzare quotidianamente nei rapporti interpersonali, in particolare negli scambi comunicativi sui social. il Manifesto è indirizzato perlopiù ai giovani ma è un buon esempio anche per molti adulti.
Tra i dieci punti mi soffermo sul terzo: le parole danno forma al pensiero. Una verità dibattuta, a dire il vero, tra i deterministi e i relativisti ma in entrambi gli ambiti teorici c’è la consapevolezza che le parole siano determinati per i processi umani simbolici e cognitivi. Le nostre interazioni sociali e insieme la nostra plasticità mentale, vengono plasmate dal linguaggio e dalla intenzionalità con cui viene utilizzato e viceversa. L’interscambio tra ciò che diciamo e ciò che pensiamo è rilevabile dall’uso dei significanti, ovvero da quelle rappresentazioni simboliche che ognuno di noi ha per determinare la raffigurazione di un concetto: proviamo a pensare alla parola automobile, è molto probabile che, pronunciandola, a ognuno di noi venga in mente la propria vettura, l’oggetto quindi che più conosciamo, con il quale siamo in contatto diretto: le automobili sono molte, e la nostra non è che un modello tra tanti ma, probabilmente, è quella che ci viene subito alla mente; la parola mamma ci evoca di certo il volto di nostra madre, se qualcuno della mia generazione pensa al supereroe Superman ha un’alta probabilità che gli si palesi nel pensiero il viso di Christopher Reeve, l’attore che negli anni ‘80 impersonò l’eroe della Marvel.
Nel periodo dello sviluppo, se siamo abituati a ricevere parole svalutanti la nostra persona, cresceremo con l’immagine di noi come individui non meritevoli, al contrario se veniamo riconosciuti come bambini di valore, avremo una buona visione di noi stessi. Il tipo di attaccamento che abbiamo avuto ci influenza moltissimo e le parole che abbiamo ricevuto o subìto restano ben salde nella nostra attività cognitiva che ne viene condizionata di continuo nel processo di autovalutazione. Le parole quindi hanno grande influenza sulla simbolizzazione del mondo che ci circonda e ne formano il valore semantico sia per gli oggetti che per le persone, inclusi noi stessi. Possiamo azzardare una definizione: ognuno è le parole che dice, parlare male è pensare male e viceversa.
Se le parole che popolano la nostra memoria hanno così tanta influenza sul nostro atteggiamento mentale, l’uso di un lessico in cui ci siano spesso parole d’odio ci pone in una condizione comportamentale di livore costante. La continua svalutazione dell’altro, il continuo pensiero negativo su quanto ci circonda, con la propensione al complottismo, ci porta a coltivare rabbia sociale e continuo conflitto violento, rendendo disfunzionale il nostro stare in comunità. Ognuno di noi ha un conoscente, un parente o un collega rabbiosi, svilenti il prossimo e altamente conflittuali, la cosa che possiamo vedere è che questi, spesso, restano isolati o si affiliano a sottogruppi fatti di individui con le stesse prerogative. Esprimere dissenso con furore verbale, svalutazione dell’altro con intenzionalità violenta, chiude qualsiasi possibilità al dialogo costruttivo, all’espressione della “rabbia gentile” teorizzata da Daniel Lumera, il quale non invita a non esprimere la rabbia ma a canalizzarla in modalità non violente e che abbiano un’intenzione di crescita.
Le parole quindi sono importanti parafrasando Nanni Moretti, e possono essere muri oppure finestre tanto per citare Marshall Rosenberg. L’uso quotidiano e reiterato che ne facciamo, plasma in maniera netta la nostra risposta cognitivo-comportamentale agli eventi che ci capitano e influenzano le relazioni umane delle quali non possiamo fare a meno. Il nostro cervello sociale si è evoluto, in confronto a quello di altri primati, anche grazie alla simbolizzazione e immagazzinamento delle conoscenze che ci permette l’uso della parola oltreché nell’ottica dell’interazione con l’altro da noi, che è passata negli stadi evolutivi di semplice gestualità ad articolazione di fonemi legati a quella gestualità. Tutto questo per garantire la sopravvivenza e, riportato al momento in cui viviamo, il benessere di tutti gli individui. Le parole hanno permesso di accelerare l’evoluzione e oggi possiamo beneficiare di una grande quantità di informazioni affinché questa evoluzione possa continuare più spedita. Louis Cozzolino, psicologo e docente presso la Pepperdine University di Malibù, nel suo “Il cervello sociale” afferma: “ […] se pensiamo a quanto soffriamo per questo eccesso di informazione, questa enorme evoluzione non va tutta a nostro vantaggio!” e da qui chiudo questo articolo con la domanda che mi pongo: perché sabotarsi e mettersi in una condizione di tormento quando basterebbe un uso corretto del grande potere delle parole per smettere di soffirire?