Secondo quanto abbiamo detto nella prima parte, in questa breve e incompleta disamina (ogni componente della resilienza avrebbe almeno bisogno di un capitolo a sé per essere spiegato a fondo e chiarire come interagisce con gli altri), può venire spontaneo pensare che essere resilienti significhi essere sempre in grado di trovare soluzioni, risolvere problemi e trarsi d’impaccio da momenti no. Purtroppo non è così.
Certamente potenziare la propria autoefficacia ha grandi vantaggi in termini di possibilità di risoluzione di situazioni difficili, imparare a focalizzare l’attenzione sulle soluzioni anziché lasciarsi offuscare la vista dal problema aumenta considerevolmente la percentuale di successo e dominare lo stress lasciando che rimanga all’interno della soglia “buona”, evita che ci si ammali di ipertensione e altre patologie legate alla troppa pressione psicologica, ma c’è un “ma”, neppure le persone molto resilienti riescono sempre a trovare una via d’uscita. Già: l’insuccesso fa parte del nostro percorso esperienziale; cerchiamo di scongiurarlo in ogni modo ma, purtroppo, lui è lì che ogni tanto ci ricorda che siamo fallibili.
Secondo la mitologia cinese ognuno di noi, al mattino, si sveglia con una tigre accanto, sta a lui riuscire a cavalcarla o farsi divorare. In questa metafora orientale la tigre non è altro che l’insieme delle nostre sfide quotidiane. Esserne divorati significa lasciarsi passivamente sopraffare dagli eventi, cavalcarla implica il coraggio e la ricerca di strategie per riuscire ad ammansirla e salirle in groppa (potremmo azzardare un parallelismo con l’arte di risalire a bordo con cui abbiamo cominciato questo articolo). Nulla di nuovo, abbiamo già visto come la volitività sia il motore che ci spinge a tentare sempre un’impresa; però dobbiamo fare i conti con il fatto che può non bastare. Malauguratamente volere non è sempre potere come ci ricorda Paolo Borzacchiello (P. Borzacchiello, Forse sei già felice e non lo sai) e bisogna affrontare la possibilità di un risultato insoddisfacente nelle nostre prestazioni. Ed è in questo caso che essere resilienti ha un valore inestimabile. La resilienza ci aiuta a metabolizzare la sconfitta, a renderla educativa, a ripartire da capo se c’è bisogno oppure arrendersi quando le condizioni del momento ne vedono la necessità.
Educare gli individui, sin da bambini, a fare i conti con la possibilità di non riuscire in un compito, senza per questo sentirsi sbagliati, li aiuterà a costruirsi il carattere resiliente che da adulti li sosterrà durante l’esperienza di un cattivo risultato. Ogni volta che la tigre li disarcionerà, se saranno abituati a commiserarsi passivamente per l’accaduto e dare la colpa a fattori esterni, lei li divorerà. Lo stesso capiterà se saranno educati rigidamente al fatto che il successo sia l’unico valore possibile poiché sentendosi buttati a terra verranno verosimilmente sopraffatti dalla rabbia per l’onta subita, smettendo per questo di pensare in modo efficace e lasciando alla tigre il tempo di annientarli. Chi non sa metabolizzare un insuccesso ha molta probabilità di essere in balia delle proprie emozioni e non c’è nulla di più controproducente.
Dobbiamo unire l’intelligenza emotiva all’insieme delle caratteristiche che abbiamo già incontrato e che tutte insieme creano il carattere resiliente. E’ scienza che nei processi decisionali il solo fattore razionale non sia efficace ma è necessario anche quello emotivo. E’ un fatto che non siamo educati emozionalmente e, spesso e volentieri, emozionarsi è solo sinonimo di turbamento o di uno stato di ansia per qualcosa che stiamo affrontando, che sia una prova d’esame o un primo incontro galante. Ma anche rabbia paura e tristezza sono emozioni e ci dobbiamo fare i conti. Culturalmente sono considerati stati d’animo negativi perché inducono a comportamenti socialmente “sconvenienti” come scoppi d’ira, fughe precipitose o il pianto. In realtà possono essere salvifici se impariamo a gestirli con equilibrio. Gli eventi avversi ci suscitano una risposta emozionale importante, soprattutto quando una situazione mette in pericolo qualcosa a noi caro: la nostra incolumità o quella dei nostri familiari, il nostro patrimonio, la nostra professione, la stima e l’equilibrio di sé.
Una risposta emotiva fuori controllo mina alla base la possibilità di far fronte con il giusto equilibrio a ciò che ci sta succedendo: può renderci rigidi, passivi oppure eccessivamente agitati (ricordiamoci che la resilienza implica elasticità, agentività e buon controllo della situazione). Ad esempio i nostri meccanismi fisiologici di attacco/fuga durante una reazione emotiva intensa, concentrano l’energia su alcune parti del nostro organismo e per farlo ne scollegano altre, tra cui alcune attività cognitive relative alla parte decisionale. Si spegne di fatto la parte del nostro cervello deputata alle scelte coscienti e diventiamo, per un periodo di tempo più o meno lungo, esclusivamente istintuali: è in questo momento che rischiamo di fare la “sciocchezza della vita” ovvero compiere un errore che ci potrebbe condizionare a lungo, anche per sempre. Quando diciamo di essere accecati dalla rabbia o dalla paura ci riferiamo proprio al black out neurale dato dalla fortissima risposta emotiva.
Controllare il più possibile rabbia e paura quindi (che non vuol dire soffocarle ma solo gestirle), ci evita scelte avventate e danni irreparabili.
Arrivati a questo punto abbiamo un po’ perduto il filo iniziale del ragionamento perché delle componenti della resilienza potremmo parlare all’infinito e non abbiamo lo spazio; dopo averne fotografate alcune cerchiamo dunque di andare verso un epilogo. Risalire a bordo o salire in groppa alla tigre, presuppone caratteristiche complesse che messe assieme ci donano la giusta elasticità caratteriale per far fronte a tutti quei momenti sfavorevoli che la vita ci mette di fronte. Una prerogativa importante è non smettere mai di evolvere, non fermare mai la nostra voglia di crescita.
E’ auspicabile continuare a sviluppare la nostra capacità cognitivo – comportamentale per adattarsi all’incessante fluttuare degli eventi della vita; non può esserci benessere se restiamo inermi di fronte a un accadimento o se non inseguiamo i nostri desideri e non tentiamo di esaudirli. “Tentiamo” è un verbo ricorrente perché come si è visto non possiamo essere sicuri di riuscire ma se non provassimo neppure le possibilità sarebbero certamente uguali a zero.
Si può provare a cambiare quello che non ci piace di noi, dandoci degli obiettivi realizzabili, sostenibili nel tempo che scongiurino il più possibile un insuccesso. Si può cominciare un cammino evolutivo per rinforzare le nostre caratteristiche di personalità, tentare di cambiare il nostro copione con l’aiuto di professionisti e diventare più resilienti perché più si è resilienti e più si riesce a portare a compimento una prova. Dobbiamo essere consapevoli che non esistono strategie miracolose; dare a qualcuno la sicurezza di un cambiamento prodigioso o persuaderlo che una questione si risolverà con certezza assoluta è molto azzardato se non scorretto dal punto di vista deontologico, ma si possono anzi si devono cercare strumenti per provare, cercare di farcela, evolvere.
Leggiamo, stimoliamo il nostro cervello che, come un muscolo, si espande se ben sollecitato, diveniamo fluidi senza imbrigliare la mente in blocchi rigidi, immaginiamo i nostri pensieri come un quadro di Pollock e non come un dipinto di Mondrian. Usiamo le parole giuste per definirci perché ciò che diciamo condiziona il nostro pensiero. Io in questo articolo non ho mai usato la parola fallimento ad esempio, ma insuccesso o cattivo risultato perché suonano meno drastici. Così facendo potremo sostenere al meglio la nostra esistenza ed essere resilienti nella maniera più creativa che c’è.