Ci domandiamo spesso perché i maschi sono così refrattari a prendersi cura del proprio stato emotivo. Secondo Edoardo Giusti e Lino Fusco (Giusti, Fusco, 2001) il motivo risiede nel non voler rinunciare all’immagine onnipotente di sé che accompagna lo stereotipo maschile da millenni. L’uomo è detentore del potere, viene educato alla performance (un tempo avremmo detto alla caccia e alla guerra) e a ottenere grandi risultati; esprimere emozioni è segno di debolezza, così come condividere le preoccupazioni e il maschio che cede alla tentazione della condivisione perde il privilegio. Ho esagerato? Purtroppo no. Ancora oggi si nasce maschi in un contesto colorato di azzurro, già con la missione del principe che salva la bella addormentata, che guida la famiglia e fa la differenza; si gioca ai soldati e si impara ad amare le macchine, e se piangiamo ci dicono che non va bene, che non siamo femminucce, sottolineando in un colpo solo due stereotipi: i maschi sono forti, le femmine sono fragili, il loro colore è il tenue rosa, il suffisso “-ucce”, diminutivo vezzeggiativo, ne sancisce la gracilità. Se questi canoni non vengono rispettati, le bambine divengono “maschiacci” e i bambini fanno pensare a una futura omosessualità.
In realtà gli uomini possono concedersi un’emozione: la rabbia. E’ socialmente accettato che un maschio esprima la rabbia e lo faccia attraverso la fisicità; la rabbia è un’emozione delle cinque di base che tutti abbiamo, attiene alla lotta ma ancor di più alla frustrazione e al senso di ingiustizia. Nell’immaginario collettivo “emozionarsi” vale a dire piangere o avere un moto di tenerezza per questo la rabbia sfugge spesso dal novero delle emozioni. Quindi, una prima necessità dal mio punto di vista, è quella di fare alfabetizzazione emozionale fin da bambini affinché tutti sappiano dare un nome allo stato d’animo del momento.
Sulla maschilità si aprono due visioni opposte; la prima la vuole scontata, “la mascolinità è vista come modello standard e sinonimo di essere umano in generale” (Giusti, Fusco, 2001), la seconda, al contrario, ci dice che la mascolinità, pur con tutte le acquisizioni per ius nascendi, va continuamente dimostrata: “Gli uomini, per dimostrare di essere maschi, devono sottolineare la propria differenza dalle donne. […] i maschi devono dimostrare di essere veri uomini con il fracasso e la messa in scena.” (La Cecla, 2010). Quello che è vero per ognuna delle due visioni è che la mascolinità tradizionale è faticosa, in particolar modo sotto il profilo emotivo, perché basta poco per minare l’autostima di un uomo che, per qualche motivo, non corrisponde perfettamente ai canoni precostituiti per lui dalla società. Molti uomini non sanno fare i conti con la frustrazione, con l’idea di non avere ragione e di non avere potere.
Cosa succede quando un uomo decide di confrontarsi con il proprio sentire? Quando un uomo riesce a entrare in relazione con il proprio sé emotivo esperisce “la bellezza di abbandonarsi all’altro” (Giusti, Fusco, 2001), una sensazione di libertà e di crescita che il rigido codice comportamentale maschile nasconde dietro un paravento di modi bruschi e posture virili, necessarie a non perdere quell’idea di individuo forte insita in quell’educazione ricevuta fin da bambini di cui parlavo prima. Il cameratismo maschile, che funziona benissimo quando i maschi si radunano a parlare di calcio, di donne e di motori, funziona altrettanto bene quando si parla di emozioni. Ci sono le prove di questo nei gruppi di autocoscienza maschile, come il Cerchio degli Uomini di Torino, o i gruppi formati da Maschile Plurale. In questi contesti, nati per il contrasto alla violenza maschile contro le donne, si cerca di costruire un nuovo modo di essere uomini.
Nella mia esperienza di maschio ormai adulto, posso affermare con certezza che non c’è alcuna debolezza nell’affidarsi all’altro per un sostegno, una parola o un percorso professionale di uscita da un momento di fragilità; la vera libertà si trova nel superamento degli schemi che altri hanno creato per noi, nel lasciarsi andare alle emozioni e alla loro condivisione poiché da soli non si può arrivare lontano. L’edificazione dell’autoconsapevolezza, che è un costrutto molto più complesso della sola identità anagrafica, fatto di desideri, personalità, riconoscimento di sé e della propria capacità di identificare gli stati d’animo e dargli il giusto valore, è il primo passo per uscire da uno schema precostituito che vuole il maschile come una impossibile macchina perfetta. La dimensione della cura, di sé e degli altri, da sempre appannaggio delle donne, è una capacità che fa bene anche agli uomini, li umanizza e li aiuta a superare meglio i momenti in cui gli eventi minano l’autostima e l’espressione violenta della rabbia diviene la via privilegiata per annientare la paura e la frustrazione.